Romanzetto che aiuta a conoscere e capire una delle tante vicende della storia dell'unione d'ITALIA. Dedicato ad un amico di Villafranca che sta combattendo per ben altra battaglia. Una semplice dedica che non ha nessuna relazione con questo racconto se non per la forza interiore che dobbiamo avere in alcuni momenti cardine della nostra Vita.
Cinque aprile duemilanove, siamo a Villafranca, vicino alle verdi meravigliose colline di Custoza. I protagonisti della vicenda sono io e il ben più importante "tamburino sardo". Lui ha già dato il nome alla manifestazione e ad altro nella zona. Io no, e credo che ben pochi si ricorderanno di me in futuro, tranne qualche creditore. Sempre "Lui" era un ragazzo, molto più giovane di me, aveva quattordici anni, potrebbe esser stato mio figlio, per età, colore ed altezza ma non certo per tenacia.
Io sono un "pappamolla" a confronto, ma oggi mi sentivo lui. Il piccoletto dal viso olivastro e con due occhietti neri e profondi vive la vicenda che lo vede ricordato ed onorato intorno al milleottocentoquarantotto, più precisamente il ventiquattro luglio. In quell'occasione si trovava asserragliato con una sessantina di commilitoni dell'esercito piemontese. Nel mio caso ero asserragliato da un migliaio di podisti assetati di tempi. Loro, i piemontesi, dovevano difendere dagli austriaci una casa abbandonata. Ritenuta strategica. Io difendermi da uno dei tanti che mi correvano affianco. Dopo l'ennesimo attacco degli uomini del Radetzky, il nostro capitano Sabaudo affida una missione al "piccolo Tamburino": portare un dispaccio, con richiesta d'aiuto, ai carabinieri italiani appostati in una zona limitrofa, Villafranca.
Il mio incarico ufficiale è invece battere per distacco Testi, il 210. I nostri confronti, in precedenza m'han sempre visto vincitore, tranne una volta. Quella volta le cronache lo diedero vincitore, evidentemente non tenendo conto del mio atteggiamento da stratega, da vecchio giocatore di bigliardo; la rivincita te la fa vincere per spennarti nella "bella". In tutte le letterature infatti esiste la burba, il pivello, la schiappa, il bambinetto che lasci vincere perché altrimenti non gioca più e si riporta a casa il pallone. Ed allora per continuare a giocare atteniamoci a certe farse che comunque allietano. Ma questa volta una stecchetta nei denti non gliela toglie nessuno: tipo qualche minuto di distacco. Uno sberleffo.
La sfida stavolta vale solo se vinco io, perché sono acciaccato e se riuscisse a battermi non avrebbe valore e comunque come disse Eddie Felson (Paul Newman, in "Lo Spaccone") a Minnesota Fats (Jackie Gleason) " Io sono il più forte che hai conosciuto, sono il più forte di tutti. Anche se mi batti resto il più forte".
Lo ritrova in un campo adibito ad ospedale in mezzo a non si sa quanti disperati. Pallido e smagrito, il Tamburino inizia a parlare di quella corsa, dell'incarico che doveva assolvere. Il capitano mentre lo ascolta s'accorge che al ragazzo era stata amputata una gamba. Giunge in quell'attimo il medico che comunica al capitano come la gamba si sarebbe potuta salvare, se non fosse stata sforzata assurdamente. E' così che l'austero Capitano, soldato di poche parole, dice: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe ".
Poi abbraccia il tamburino, e lo bacia tre volte sul cuore. Bè, a me è successo molto meno ma quei baci li ho sentiti pure io. Si può vincere anche senza battere nessuno. Alla prossima Testi.
Simone Cartom Crema l'11
(ogni paragone o parallelo storico-personale vuole esser interpretato in maniera simpatica e senza mancanza di rispetto alcuno)